Narra un inno omerico databile al VII secolo a.C.: “Una tartaruga trovò e una gioia ne trasse infinita che industrioso, per primo, Ermes il musico canto da lei trasse.” Il messaggero degli dei avrebbe infatti ricavato dal prezioso guscio la sua lira. A Roma, all’epoca di Cesare, scaglie di tartaruga rivestono e impreziosiscono mobili, insieme con avorio, argento e altri materiali preziosi.
L’
origine della lavorazione piqué è invece incerta; si dice sia nata a
Napoli alla
fine del XVI secolo e sia stata sviluppata e perfezionata dal gioielliere Laurentini a metà del XVII secolo. La sua popolarità si diffuse subito in tutto il Nord Europa, ma Napoli continuò a essere il maggior centro per questa tecnica per tutto il XVIII secolo. Sotto il regno di Carlo di Borbone e di sua moglie Amalia di Sassonia, illuminati e appassionati mecenati, le botteghe più celebri furono quelle dei tabacchieri Giuseppe e Gennaro Sarao, Nicolas De Turris e Antonio Laurentis, nominato orefice di corte nel 1747 e forse discendente proprio di quel primo Laurentini.
La tecnica del piqué consiste nello scaldare la tartaruga con acqua bollente e olio di oliva per ammorbidirla e potervi incrostare inserti in oro, madreperla e altri materiali di pregio. Il carapace, raffreddandosi e indurendosi, trattiene gli inserti senza quindi l’uso di colle. Questa difficile arte venne descritta minuziosamente per la prima volta nell’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert (
Piquer de tabatiers, incrusteurs et brodeurs) e vi si distinguono quattro diversi procedimenti:
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piqué point-d’or, in cui si creano minuscoli fori che vengono riempiti con oro o argento fusi;
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piqué coulé in cui gli stessi metalli fusi vengono colati entro sottili incisioni lineari;
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piqué incrusté, in cui vengono inserite decorazioni in madreperla e oro nella tartaruga scaldata;
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piqué brodé o posé, che combina tutte e tre le tecniche citate.
Gli oggetti in tartaruga piqué, apprezzati in tutte le corti europee, suscitarono grande interesse tra i viaggiatori del Grand Tour e tra i grandi
collezionisti d’arte durante il XIX ed il XX secolo, in particolare i Rothschild.
Uno dei massimi esempi della maestria degli artigiani napoletani, i cosiddetti
tartarugari, è un tavolo eseguito da Giuseppe Sarao intorno al 1730, decorato a chinoiserie e popolato da più di cento personaggi, animali, insetti, draghi e uccelli.
Dei sei medaglioni presenti sul piano, uno reca la firma dell’artigiano, «Sfn»: «Sarao fecit Napoli». Il tavolo fu acquistato nel 1886 dal barone Stieglitz e dal 1933 fa parte delle collezioni dell’Hermitage.
L’interesse sempre vivo ed entusiastico da parte dei collezionisti per questi eccentrici capolavori è stato recentemente celebrato da una mostra, tenutasi a Parigi e che costituisce il primo studio organico di questa tecnica, dal titolo evocativo
Complètement piqué, la folle arte della tartaruga alla corte di Napoli.
Il cofanetto porta-profumi che presentiamo nell’
asta di Arredi, dipinti e oggetti d’arte del
2 aprile è uno splendido esempio dell’abilità dei maestri tartarugari napoletani della metà del XVIII secolo ed è attribuibile alla bottega di
Giuseppe e Gennaro Sarao. Di forma rettangolare e montato con bronzi dorati di epoca successiva, è intarsiato sul coperchio e sui fianchi in madreperla e oro rosa, con scene mitologiche e putti tra volute e nastri e contiene otto flaconi in cristallo con tappi in metallo dorato.
(di Umberta Boetti Villanis)