Con questa epigrafica battuta Picasso spiegò all’amico, nonché raffinato ministro della cultura, André Malraux, il suo lavoro a Vallauris. Nel 1946 Picasso era stato accompagnato dall’incisore Louis Fort a visitare la mostra annuale dei maestri vasai di Vallauris, presso Cannes, e tra le tante aziende artigianali che esponevano i propri lavori, fu particolarmente attratto dalla ditta Madoura, dei coniugi Suzanne e Georges Ramié. Madoura era un acronimo per “Maison Douly Ramié”, infatti già prima di sposarsi con Georges, Suzanne aveva una produzione propria di ceramiche. Non parrebbe comprensibile che un artista come Picasso, all’epoca ultrasessantenne, ricco e famoso, si potesse cimentare in un settore artistico per lui ignoto e tutto sommato “povero”, se non si conoscesse la sua straordinaria vitalità unita alla curiosità intellettuale che ne sempre ha contraddistinto l’attività. Già nei primi anni del novecento lo studio dell’arte africana, anche se avulsa da ogni significato religioso, limitata all’aspetto esteriore e alla pura estetica dei piani e dei volumi, si era trasformata nella nascita del movimento cubista, sintetizzato nel capolavoro assoluto del 1907, noto come Les demoiselles d’Avignon. La terracotta tornita, cotta e dipinta è in effetti una delle più antiche forme artistiche di cui ci siano rimaste cospicue tracce e forse proprio per questo motivo attrasse così tanto il grande artista.
Il primo incontro con i Ramié si risolse con tre sole opere decorate “per prova” e poi lasciate in fabbrica. L’anno dopo Picasso ritornò a Vallauris con la nuova compagna, Françoise Gilot, e rivedendo i piatti da lui eseguiti si convinse a dedicare molto impegno a questa nuova attività. Naturalmente utilizzò solo in parte le tecniche tradizionali, seppe inventare nuove soluzioni come la colatura dell’argilla in forme appositamente realizzate come era uso fare con il bronzo o aggregò frammenti di pignatte, oggetti e mattoni rotti per dare vita a nuovi oggetti, utilizzando la pasta bianca, cioè la ceramica non smaltata, decorata con elementi in rilievo. Disegnava personalmente le nuove forme nate dalla sua fantasia alle quali il tornitore dell’atelier, Jules Agard, riusciva a dare corpo e che lui poi infine decorava. L’impegno fu enorme, dal 1946 al 1971 Picasso realizzò circa quattromila opere originali, utilizzando quasi tutto il suo repertorio iconografico personale quale i fauni e le ninfe, le corride, le donne, i gufi, le capre, gli uccelli, i pesci e i volti caricaturali. E pur risolvendo il più delle volte la decorazione con solo pochi tratti di pennello, riuscì comunque a realizzare oggetti di enorme fascino e qualità artistica. Tra tutto il repertorio ceramico prodotto, ogni anno Picasso sceglieva circa 20/30 modelli che autorizzava a far riprodurre dai ceramisti e pittori della Madoura, sotto stretto controllo dei coniugi Ramié, con tirature, per ognuno, dai 25 ai 500 esemplari numerati.
Gli anni di Vallauris segnarono profondamente la vita dell’artista con la nascita dei figli Claude e Paloma, l’abbandono da parte di Françoise (fu l’unica donna a lasciare Picasso e non viceversa) e l’incontro con l’ultimo suo grande amore, Jacqueline Roque, lavorante della Madoura, che sposò nel 1961 e che gli rimase vicina fino alla morte (1973). Il mercato odierno, sempre molto ricettivo alle opere del maestro spagnolo, ha premiato nel 2013 con la cifra record di 960 mila euro un otre chiamato Grand vase aux femmes voilées, eseguito nel maggio 1950. Ma pur senza arrivare a queste cifre record, la vendibilità di queste ceramiche è altissima. Aste Bolaffi ha recentemente posto in vendita con successo, triplicando abbondantemente le basi d’asta, una bella collezione di brocche, piastrelle e piatti. Oggetti acquistati personalmente dal collezionista ogni estate, durante gli anni ‘60, mentre si trovava in vacanza in costa azzurra. Con Georges Ramié aveva instaurato una certa confidenza e ancor oggi ricorda l’emozione di quando, seduto con lui in un bistrot a chiacchierare, inaspettatamente gli sentì dire: “Pablo, vieni qui, che ti presento un amico!”
Di Gianfranco Fina