IL BAMBINO CHE PARAVA LE PRUGNE. ALL’ASTA I GUANTI DI DINO ZOFF, IL PIÙ GRANDE PORTIERE ITALIANO


Era il 1935 quando, in seguito alla morte di un amico torero caduto nell’arena, Federico García Lorca scriveva “Llanto por Ignacio Sánchez Mejías”. Un componimento passato alla storia per quel “a las cinco de la tarde” che scandisce ogni passaggio e ogni movimento dell’amico torero, pochi istanti prima di essere trafitto dalle corna del toro. Quella frase ha un significato preciso. Sono parole che sanno di sudore, di fronti assolate, di tensione e di sfida. Di battaglia all’ultimo sangue.

Erano proprio “las cinco de la tarde” quando, il 5 luglio 1982, Italia e Brasile scesero sul campo dell’Estadio Sarria di Barcellona per giocarsi l’accesso alla semifinale della Coppa del Mondo di calcio. Una partita da “dentro o fuori”. Una corrida senza banderillas o muleta ma con magliette, scarpe a sei tacchetti e… guanti. Se i verdeoro potevano contare sulla classe di Zico, Falcao e Socrates, molte delle speranze azzurre erano riposte nella solidità difensiva e nelle mani sicure del loro capitano: Dino Zoff. Un friulano di poche parole, 40 anni di cui più della metà passati tra i pali, uomo simbolo della Juventus a cavallo degli anni ‘70 e ’80 con la quale collezionò 479 presenze vincendo sei campionati italiani, due Coppe Italia e una Coppa UEFA. Una carriera importante, ricca di soddisfazioni. La fama di professionista intransigente e di uomo dai grandi valori. In poche parole, il più grande portiere della storia del calcio italiano.

Al Sarria di Barcellona la parte del toro avrebbe dovuto farla l’Italia, ma a las cinco de la tarde di quel 5 luglio 1982, proprio come nella poesia di Garcia Lorca, le parti si invertono. Gli azzurri attaccano, trovano in Paolo Rossi quell’attaccante implacabile che era mancato fino ad allora. Vanno in vantaggio, per due volte. E per due volte vengono raggiunti. Stremati, i ragazzi di Bearzot si riversano in attacco. E segnano ancora, sempre con Rossi che con quella tripletta si guadagnò il soprannome di “Carrasco do Brasil”. Il boia del Brasile.

Pochi minuti dopo è Antognoni a trafiggere Waldir Peres, ma un fuorigioco inesistente tiene in partita un Brasile annichilito, sotto shock, a cui però basta un solo gol per passare il turno. L’impresa azzurra è dietro l’angolo, ma gli dei del calcio non si accontentano di uno scoppiettante 3-2. Hanno riservato un ruolo da protagonista assoluto a Zoff. È l’89': Eder batte una punizione che dalla sinistra taglia tutta l’area e trova la testa di Oscar che da una manciata di metri colpisce più forte che può, abbassando il pallone, angolandolo. L’Italia intera imita Nando Martellini, che resta in silenzio, interrompendo la telecronaca, senza fiato.
La rete della porta non si muove, quel pallone rimane lì, piantato tra l’erba del campo e il gesso della linea di porta, bloccato dai guantoni di Zoff che per raggiungerlo si gira su se stesso, coprendo la visuale all’arbitro. Nel pomeriggio più caldo di sempre, al Sarria scende il gelo e il tempo si ferma. Zoff, da capitano vero, scatta in piedi.

In una mano il pallone; l’altra alzata al cielo, con l’indice che si muove in un frenetico “no, no, no”. “Avevo paura che l’arbitro non avesse visto bene” dirà lo stesso Zoff anni dopo, che per questo scattò in quella maniera così poco usuale per i suoi modi eleganti e discreti.

La partita finisce, il Brasile torna a casa in lacrime mentre l’Italia vola in semifinale e, probabilmente, capisce quel pomeriggio che la vittoria finale è davvero a portata di mano. Sei giorni dopo, allo stadio Santiago Bernabeu, è ancora Dino Zoff a realizzare il sogno più bello ai tifosi italiani. Senza guanti questa volta, a mani nude, alzando nel cielo di Madrid la Coppa del Mondo, sotto lo sguardo felice del Presidente Sandro Pertini.

È il momento più alto della carriera di un uomo che, ancora oggi, è considerato un esempio non solo sportivo ma soprattutto umano. Prima di essere un calciatore, Dino Zoff si considera un lavoratore. Serio, perfezionista, tenace, simbolo di un’Italia che ha saputo rialzarsi e che ha fatto del lavoro la sua cifra. I suoi guanti sono stati veri e propri attrezzi di lavoro. Strumenti che lo hanno accompagnato e che lo hanno reso grande.

Guanti che hanno protetto le mani più prestigiose della storia del calcio italiano. Mani che hanno custodito i sogni più belli di un bambino, Luca Maddalo, che nel 1983, all’età di 11 anni, chiese al portierone azzurro se volesse fargli da padrino alla cresima. Zoff declinò l’invito ma regalò a questo suo grande tifoso il paio di guanti che oggi Aste Bolaffi propone a tutti gli appassionati di cimeli sportivi. Un oggetto che all’epoca ha certamente reso felice il piccolo Luca e che lo lega, con una sorta di filo invisibile, a quel bambino friulano che prendeva al volo le prugne lanciate dalla nonna, diventando uno dei più grandi portieri della storia del calcio.

di JACOPO SUPPO

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