Luigi Ghirri è senza dubbio l’autore italiano più significativo del secondo Novecento. Certamente sorprende che la sua riscoperta sia relativamente recente, visto che fino a pochi anni fa solamente pochi addetti ai lavori conoscevano questo nome. Oggi si susseguono invece pubblicazioni internazionali, mostre e convegni in una irrefrenabile voglia di capire il lavoro dell’autore emiliano. La produzione di Ghirri sfugge a una classificazione tradizionale essendo stato più che un creativo un pensatore.
Le fotografie che possiamo ammirare, poetiche, ironiche o romantiche, sono solo l’ultimo tassello della sua produzione intellettuale. Ghirri era essenzialmente un curioso, un amante della poesia, della filosofia e della musica, si narra grande distratto, ma attentissimo all’osservazione delle piccole cose. Nel 1972 abbandona il lavoro di geometra per dedicarsi alla grafica e alla fotografia. Gli inizi sono quanto mai faticosi, le sue fotografie per i più risultano banali e pochi illuminati capiscono il suo lavoro. Non dimentichiamo che in quegli anni la cultura fotografica italiana era quanto mai modesta, le fotografie che circolavano provenivano dai circoli amatoriali: bei paesaggi di montagna e fotografie di donne nude controluce. Ghirri con i suoi scatti surreali doveva apparire un marziano.
Scrive Gianni Celati di quegli anni “Fotografava cose a cui nessuno bada. Fotografava le strade che percorreva per andare al lavoro. Oppure fotografava quello che aveva in casa, i propri libri, gli atlanti, le cose più a portata di mano. Per lui la foto doveva ridare dignità alle cose… doveva sottrarle agli schemi, ai giudizi sbrigativi di chi non guarda mai niente”. Nel 1979 viene organizzata a Parma una grande mostra antologica da Arturo Carlo Quintavalle, un primo successo che non gli permetterà comunque di raggiungere in vita un reale successo e tanto meno una tranquillità economica. Nel 1992, colto da un inaspettato malore, muore improvvisamente.
Le fotografie di Luigi Ghirri hanno qualcosa di diverso, di speciale, catturano per la loro poesia e allo stesso tempo ci lasciano senza parole per la loro semplicità. Sono opere d’arte, verrebbe da dire, lasciando per un attimo da parte la retorica di questa definizione. Certamente hanno un linguaggio potente ed evocativo cui è difficile restare indifferenti. Ghirri aveva un’ulteriore sensibilità, raramente conciliabile con la produzione: riusciva infatti a elaborare in maniera schietta e lucida il pensiero sul proprio lavoro, a scrivere “da critico” delle sue fotografie: “Credo che nessun aggettivo sia preciso e che nessuno sia impreciso. è che forse la mia idea della fotografia come inesauribile possibilità di espressione ha cercato nella realtà mondi e modi di rappresentarli. Ho cercato di non rifugiarmi nei solidi terreni della ripetizione di me stesso, ma di volta in volta in modalità operative e di sguardo diverse. La fotografia, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi. Una grande avventura del mondo del pensiero e dello sguardo, un grande giocattolo magico che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza ed il fiabesco mondo dell’infanzia, un continuo viaggio nel grande e nel piccolo, nelle variazioni, attraverso il regno delle illusioni e delle apparenze, luogo labirintico e speculare della moltitudine e della simulazione”.
di Silvia Berselli