Nel 1861, al momento della costituzione del regno d’Italia, la circolazione cartacea era assicurata da banche locali, legate ai governi degli Antichi Stati, che operavano in modi diversi a seconda delle diverse legislazioni e consuetudini. Tra queste solo la banca Nazionale negli Stati Sardi e la banca Nazionale Toscana emettevano vera e propria cartamoneta convertibile in moneta metallica (cioè in oro), mentre le altre banche ponevano in circolazione buoni di cassa e titoli fiduciari di forme varie che, anche quando erano emessi al portatore, potevano essere incassati solo per girata ed erano quindi assimilabili agli assegni circolari dei nostri giorni. Era più che ovvio che la banca Nazionale negli Stati Sardi, sull’onda dell’estensione al neonato regno d’Italia delle istituzioni del regno di Sardegna, aspirasse ad accreditarsi come banca di stato per l’intero territorio nazionale e infatti, evidentemente con questo intento, nei primi anni dopo l’unificazione si precipitò ad aprire succursali in molte città della penisola. Un progetto di legge per la fusione della banca Nazionale negli Stati Sardi e della banca Nazionale Toscana, con la conseguente creazione di un istituto nuovo, cui assegnare il nome di banca d’Italia, incaricato di emettere cartamoneta e di assumere la funzione di Tesoreria dello Stato, fu presentato in parlamento nel 1865, ma non ebbe seguito per l’ostilità dei deputati toscani, che riuscirono a portare dalla loro parte i colleghi delle province meridionali. Viste le dimensioni dell’ostacolo che si era parato davanti alle sue ambizioni, la banca Nazionale negli Stati Sardi adottò una strategia fatta di piccoli passi, continuando ad aprire succursali in tutto il territorio del regno, ma in modo meno aggressivo, e operando per assumere senza clamori la nuova denominazione di banca Nazionale nel regno d’Italia. Così, in assenza di provvedimenti o delibere formali, tale nuova denominazione iniziò a fare capolino nella terminologia adottata dalle burocrazie ministeriali per la redazione dei propri atti e in pochi anni ebbe la sua definitiva consacrazione, per così dire, pubblica, con la comparsa in primo piano sulle banconote.
Nella recente asta del dicembre 2013 sono state proposte in vendita quattro rarissime banconote che testimoniano questo passaggio morbido da una denominazione all’altra: si tratta di esemplari del 1.000 lire (il valore più alto di cui all’epoca era consentita l’emissione) a prima vista uguali, ma nei quali varia la denominazione dell’emittente, che campeggia in grande evidenza nella parte alta. In particolare, nella banconota emessa il 22 luglio 1868 la denominazione è ancora banca nazionale negli stati sardi, mentre nella banconota del 17 luglio 1872
si trova già banca nazionale nel regno d’italia, così come negli ultimi due lotti che compongono il magnifico quartetto, entrambi emessi il 15 gennaio 1873. L’estrema rarità di queste banconote si spiega con il loro valore nominale: ognuna era teoricamente convertibile in oro monetato per un peso di circa 322 grammi, corrispondente a dieci volte il peso di una moneta d’oro da 100 lire dell’epoca, che è di 32,25 grammi.
Quanto alla vicenda della banca d’Italia, dopo la bocciatura del progetto in parlamento nel 1865, per parecchi anni non se ne fece più nulla, fino all’esplosione, nel 1892, dello scandalo della banca romana, il primo grande episodio di connivenza fra malaffare e politica della storia italiana. La gravità dell’episodio costrinse il governo di allora a prendere il toro per le corna, imponendo l’accorpamento di tutte le banche di emissione all’interno della banca d’Italia, che vide finalmente la luce nel corso del 1893.
Di Carlo Barzan